Thursday, October 13, 2005

La caccia con l’arco in Italia

La legge cornice 968/77 individua l’arco come strumento legittimo per la caccia. Il parlamento, in quel lontano anno, prese una decisione all’avanguardia che mise in linea l’Italia con pochissimi altri paesi del mondo. La storia di quella vicenda è particolare: a Giusy Pesenti, allora presidente del poligono di Bergamo, si presentò l’occasione di interloquire con l’onorevole Andreotti, e lo convinse a presentare la proposta per la legittimazione delle cacce “minori”, arco e falco. E fu l’allora presidente del consiglio a firmare nella nascente legge quadro tale riconoscimento, che passò “inosservato” in una calda sessione parlamentare dell’agosto del ‘77. E Giusy Pesenti, a tutto diritto, da allora è considerato “padre” della caccia con l’arco italiana.
Da quel momento l’interesse per la caccia con l’arco nel nostro paese si è accresciuto, pur rimanendo comunque attività di nicchia. Se oggi si può contare su un potenziale di qualche migliaia di cacciatori, che praticano o che “occhieggiano” alla disciplina, nel ‘77 il cacciatore con l’arco era praticamente inesistente, tranne a quei pochissimi appassionati (come Giusy Pesenti) che l’avevano conosciuta negli Stati Uniti e che la praticavano all’estero. Tra parentesi, il Pesenti l’aveva avvicinata tramite uno dei padri indiscussi della caccia con l’arco moderna, quel Fred Bear che rappresentò negli anni ’60 il modello per tanti cacciatori americani, e che rappresenta ancora oggi un simbolo valido, sia da un punto di vista morale che filosofico, in tutto il mondo.
L’America conta milioni di cacciatori con l’arco, con regolamentazioni specifiche e calendari che aprono anticipatamente rispetto all’arma da fuoco. È un paese con una cultura venatoria diversa dal nostro, sotto molti punti di vista, come pure gli habitat e la fauna che risultano molto più prossimi a quella filosofia della wilderness che si legge sui libri di Conrad e Thoreau. Solo duecento anni fa nelle praterie si cacciava il bisonte con l’arco, e cento anni fa nelle foreste dell’ovest i nativi cacciavano ancora il cervo coda bianca appostandosi a venti metri con l’arco e le frecce nascosti dalla vegetazione. I trapper che esploravano la frontiera avevano molto più in comune con gli indiani che non con la cultura europea da dove provenivano, grazie ad un meccanismo di mimesi e adattamento all’immanenza dell’ambiente selvaggio nel quale si muovevano. È naturale quindi che questo retaggio tutto sommato recente abbia fatto presa, con la pressione romantica e funzionale di un mondo ancora in scala 2 a 1 rispetto al vecchio continente. Negli anni ’30 già gli stati americani legalizzavano la caccia con l’arco.
Dalle nostre parti si parla una lingua venatoria frutto di una cultura differente e composita, in parte antica fatta di tradizioni in cui la caccia rappresenta privilegio dei ricchi e dei nobili, in parte moderna evolutasi per necessità dopo i depauperamenti bellici, e in parte contemporanea viziata dal compromesso politico economico dell’equazione caccia-sport-business. Dagli anni ottanta ha fatto capolino anche una visione alternativa, grazie al dilagare di una certa comunicazione; i sogni di quella generazione cresciuta e alimentata da film, libri e riviste d’avventura outdoor d’oltreoceano hanno fatto germogliare la voglia concreta di “selvaggio nostrano”, tra le cui forme simboliche ben si identificano l’arco e le frecce in un contesto di caccia arcaica. Oggi molto giovani cacciatori si rivolgono all’arco e le frecce, come pure molti appassionati d’arco, spinti da una curiosità (a volte profonda pulsione) alla ricerca di risposte articolate sul rapporto con la Natura nei confronti della propria natura, risposte difficili, forse impossibili, ma molto intriganti.

Etica
Cacciare con l’arco non è solo un modo diverso di rapportarsi con il selvatico. L'arciere nel buio del bosco non è solo una romantica immagine. Più lo strumento di caccia è primitivo più ci si costringe al contatto ravvicinato. Chi caccia con l'arco oggi sa benissimo che non caccia per sopravvivere, sa che la sua arma è primitiva e che ha dei grossi limiti tecnici e che il ferimento del selvatico è l'Assoluto da Evitare, e quindi paradossalmente preferisce non azzardare un tiro piuttosto che rischiare un ferimento. Eticamente ha quindi come obiettivo l'avvicinamento estremo (che significa la penetrazione dell'area d'allerta, quella vera, quella protetta da sensi del selvatico i cui recettori non sono codificati nei manuali d'anatomia) e il più delle volte rinuncia all'atto conclusivo (uccidere) per farsi una risata alla faccia della sua goffaggine. Non mi spiego il perché effettivo di questo forte condizionamento. Forse il cacciare con uno strumento primitivo è un richiamo a cui risponde solo un particolare individuo, parzialmente libero dal principio edonistico e consumistico, quindi automaticamente e interiormente rispettoso di certe leggi non scritte che hanno accompagnato l’umanità ai suoi primordi. Non credo proprio che ciò dipenda dall’economia del sistema balistico (le frecce sono preziose e molto spesso auto-costruite con amore, una per una); certo è che questa convinzione radicata l’ho ritrovata in tutti i cacciatori con l’arco, e soprattutto in tutti quelli che si sono rivolti all’arco dopo altre esperienze. Una sorta di umiltà indotta dalla limitazione auto imposta, che dà un maggiore valore all’atto, un “sentirsi” più vicini ad un modello ancestrale di uomo che non c’è più, un fatto fisico che in potenza sconfina con la ritualità.


La letalità della freccia
il vero Cacciatore con l'Arco è un Cacciatore particolarmente sensibile, responsabile e soprattutto preparato. La sua specializzazione è obbligatoria, sia perché pratica una forma di caccia già di per sé stessa autoselezionante (la conoscenza del territorio, dell’ Etologia e Biologia animale e la capacità di gestirsi nelle forme di caccia che prevedono un avvicinamento estremo alla preda) sia perché l’efficacia del mezzo che usa è totalmente vincolata alla sua conoscenza e senso di responsabilità.
L’efficacia dell’arco come mezzo di caccia alla grossa selvaggina è indubbia, fermo restando che vengano rispettati i concetti su esposti. Ed è un tipo di efficacia legato a fattori balistici diversi da quelli dell’arma da fuoco. Mentre una palla sparata da una carabina possiede una velocità tale da poter causare l’arresto o l’immobilizzazione della preda (indipendentemente dal potere lesivo) per via dell’energia cinetica, la freccia dotata di lame (che raggiunge mediamente velocità dieci volte inferiori alla palla) è in grado “solamente” di provocare lesioni mortali per via dell’emorragia conseguente. In termini balistici, possiede alto killing power (potere lesivo) ma basso o nullo stopping power (potere d’arresto) soprattutto con la grossa selvaggina. Ecco perché la tecnica venatoria in sé deve essere adeguata per poter condurre la caccia responsabile ai grossi mammiferi. In un ungulato medio (dalle dimensioni del capriolo a quelle del cervo) l’area vitale in cui colpire (vista da una posizione laterale con l’asse di mira ortogonale all’asse del corpo) varia da 15 a 40 cm di raggio. In tale area e con tale orientamento troviamo polmoni, fegato, cuore. Una emorragia prodotta in questa zona è sempre rapida e mortale. Il ferimento da proiettile primitivo è causa sempre di emorragia. La qualità (intesa come “efficacia”) della ferita conseguente all’emorragia è funzione del numero di vasi coinvolti (attraversati e lacerati dal proiettile) e del drenaggio della ferita, Il tempo che intercorre tra l’impatto e la morte del selvatico varia in funzione di questo parametro e dell’azione di disturbo causata dal cacciatore che ha inferto il colpo. In altre parole, se il colpo è ben indirizzato in area vitale e se non viene generato alcun disturbo susseguente, intercorrono da trenta minuti a sessanta minuti perché l’emorragia compia il suo effetto. Statisticamente, su selvaggina di peso di 70/150 Kg, il percorso compiuto dal momento dell’impatto a quello terminale non supera i 100 metri, generalmente compiuto in discesa e verso corsi d’acqua quando presenti nelle vicinanze.
E’ opportuno distinguere tra ferite che provocano grandi emorragie e quelle che inficiano la funzionalità immediata degli organi vitali. Paradossalmente, un cuore attraversato completamente da una freccia può continuare a svolgere la sua funzione per un tempo intuitivamente troppo grande e se il selvatico è perturbato dal cacciatore che lo spaventa, consentirgli di correre per centinaia di metri. Fondamentale è quindi l’immobilità e il silenzio, che per almeno un’ora devono seguire il colpo a segno.
La caratteristica migliore di un colpo è sempre da ricercarsi nella quantità di sangue drenata dalle ferite, non dalla precisa mira al singolo organo vitale. Nello stesso tempo, il miglior tipo di ferita con altissimo killing power e in grado di frenare la fuga o l’allontanamento del selvatico rimane quella ai polmoni. Con entrambi i polmoni attraversati da un colpo si genera un doppio collasso pneumotoracico e l’animale (se non pressato da inseguitori) si immobilizza pochi minuti, a volte secondi, dopo l’impatto perché il sangue non si ossigena più . Le ferite al cuore, al fegato, sono sempre mortali, e in funzione dei vasi sanguigni recisi si ha un sicuro abbattimento. Generalmente un selvatico deve versare circa 1/3 (35%) del suo totale peso di sangue in circolazione per perdere conoscenza e morire. Il sistema circolatorio di un mammifero funziona sulla base di una percentuale approssimativamente pari a 56 grammi di sangue per kg di peso corporeo (Badsworth, 1975). Di conseguenza, ad un cervo da cento kg basta un’emorragia pari a 980 grammi di sangue. E’ critico quindi il fattore “velocità” . Più velocemente procede l’emorragia, meno percorso il selvatico compie dal momento dell’impatto. Il proiettile primitivo nella sua penetrazione produce anche un piccolo effetto collaterale di shock nei tessuti immediatamente circostanti il taglio. Ad un’analisi accurata (Stinger, 1986) appaiono rotture di piccoli vasi sanguigni in un raggio di 15 cm. dalla ferita principale che possono essere interpretate solo come shock da impatto. Tale shock produce l’effetto di “intorpidire” l’area e “narcotizzare” l’effetto della penetrazione. La medesima considerazione proviene dall’analisi chimica dei tessuti muscolari attraversati dal proiettile lento in cui non vi è associazione con adrenalina e bassa quantità di endorfina, caratteristica questa sempre riscontrabile ingigantita nelle ferite da arma da fuoco.
Questo ragionamento vale per proiettili sempre dotati di bordo estremamente tagliente, profilo a cuspide e con caratteristiche cinetiche tali da possedere quantità di moto nel range considerato .
Da studi pubblicati (Brooke, Stinger,1981) appare come la soglia del dolore negli animali selvatici sia estremamente più alta che negli umani. Generalizzando, maggiore è la taglia del selvatico, piu’ in alto essa si sposta e maggiori capacità di recupero si manifestano in essi. Maggiore è la “pulizia” della ferita (il proiettile affilatissimo) e migliore è la localizzazione del colpo, meno facilmente viene raggiunta questa soglia del dolore. Esempi innumerevoli di selvatici di grosse dimensioni trapassati da una freccia che continuano a brucare (e che crollano dopo qualche minuto per l’emorragia) confermano come la concezione umana del dolore sia un parametro assolutamente non idoneo per valutare tale aspetto. Una ferita da taglio che corrisponde alla nostra descrizione e che non colpisce organi vitali può tranquillamente non rivelarsi mortale per via della bassissima percentuale di danneggiamento dei tessuti circostanti, con l’unica eccezione delle ferite addominali, che provocano quasi sempre la morte per setticemia (anche se essa può avvenire giorni dopo il colpo). Comunque sia, la fisiologia del dolore si riflette sempre nell’umano in base alla natura della ferita, come dire che l’effetto “psicologico” di un taglio anche se superficiale ha manifestazioni e reazioni “non proporzionali” alla reale intensità e gravità del danno. Non si deve quindi valutare la problematica del ferimento sotto questo aspetto “antropizzato” …ed è sbagliato umanizzare gli animali. Gli animali consciamente non possono avere il timore della morte, finché nessuno è in grado di dimostrare il contrario.
La configurazione neurologica del dolore osservabile sia tra gli animali domestici che quelli selvatici non è misurabile se non in termini clinici. Fisiologicamente, le terminazioni nervose che percepiscono il dolore sono localizzate sulla superficie dell’epidermide e nelle ossa. Gli organi interni vitali (cuore, fegato, polmoni e viscere) hanno pochissime se non alcune di esse, come quelle responsabili delle nausee.

La selvaggina
La caccia d’elezione per l’arco è quella alla grossa selvaggina, perlomeno è quella più…decantata. In America (a parte la difficilissima disciplina della caccia al tacchino selvatico) con l’arco si cacciano normalmente Cervi della Virginia, Cervi Mulo, Capre selvatiche, Bighorn (una versione superdotata del nostro Muflone) Orsi bruni e Elk. In alcuni stati del nord america e Canada anche Alci e Caribou, come pure Orsi Grizzly. Sono cacce in solitario, da appostamento elevato (tree stand hunting) oppure precedute dall’avvistamento e dal lentissimo avvicinamento (stalking). In Italia, dove è permesso, il cinghiale è cacciabile in varie forme (anche nella tradizionale battuta) e ha dimostrato la sua efficacia senza alcuna discussione. In riserve private, l’arco ha dimostrato la sua efficacia anche sul Muflone e sul Cervo rosso. Ma bisogna affermare che anche le cacce alla piccola selvaggina, in compagnia del cane, possono essere una ottima opportunità. La caccia con il cane e l’arco è pratica preistorica e antichissima (come documentato dalle pitture rupestri del neolitico franco cantabrico e nelle raffigurazioni egizie) e, pur con le ovvie difficoltà (richiede maestria nel colpire la preda in movimento) è di grandissime soddisfazioni. Nel meridione d’Italia oggi sta avendo un buon seguito.

Le possibilità
La legislazione permette l’uso dell’arco in caccia, ma non ne specifica alcuna regolamentazione. Regioni e Province possono proibire l’uso dell’arco o finalizzarlo a determinate specie, e così, a macchia di leopardo, fanno. In tutti questi anni nulla è stato fatto concretamente per delineare un quadro preciso dei requisiti e della preparazione specifica che il cacciatore con l’arco deve dimostrare per poter esercitare (o sostenere) i suoi diritti. In altre parole, considerando il fatto significativo che l’arco e la freccia non vengono classificate come armi (dalla legislazione vigente) chiunque, in possesso della licenza di caccia, può recarsi in armeria o in un negozio di articoli sportivi, acquistare un arco e andarvi a caccia.
Alla luce delle sue peculiarità tecniche e delle rigide norme etiche a cui deve essere accompagnata, la caccia con l’arco necessita quindi di una decisa preparazione e sensibilizzazione preliminare. Sia che ad essa si rivolga un cacciatore tradizionale, sia che (ed a maggior ragione) vi si avvicini un arciere. È per questo motivo che nel 1990 nacque l’Eredità Perduta, una associazione che facendo base operativa fissa a Todi, nella riserva di Agrincontri, iniziò un programma di educazione alla caccia con l’arco. L’associazione, pur non potendo contare su un numero di associati significativo, da quel momento intraprese contatti ufficiali con gli organi politico-istituzionali per sensibilizzare al problema. Nel 1995 ottenne il riconoscimento ufficiale della National Bowhunter Education Foundation (NBEF) , un organismo internazionale con sede in America posto a tutela della caccia con l’arco, e iniziarono dal ’96 i corsi riconosciuti a livello internazionale IBEP (International Bowhunter Education Program). Questi corsi, della durata di 14 ore, sono modulati su argomenti tecnici ed etici, si insiste molto sulla preparazione alla sicurezza e sull’etica venatoria. In USA buona parte degli stati prevedono questa abilitazione alla caccia con l’arco, come pure molti stati sudafricani e in questi ultimi tempi, anche europei, che su quel sistema didattico hanno fatto modello ufficiale (l’ultimo caso è l’Ungheria).
Recentemente l’Eredità Perduta ha strutturato su tre aree geografiche la sua azione; al Nord la sede è a Bologna (dove è nata) , al centro è Roma e al sud è Salerno. Ed è proprio da questa ultima area che nascono le maggiori speranze e stanno giungendo le soddisfazioni: l’assessorato alla caccia della Provincia di Salerno, come pure le associazioni venatorie, stanno collaborando in modo molto intenso per definire standard sperimentali sia a livello normativo che pratico. Un primo passo che, se ben mirato, potrà divenire oggetto di studio e stimolo per altre aree. E’ infatti in progetto, con la partecipazione della Provincia e di alcuni Comuni del territorio del Vallo di Diano, la costituzione di una scuola per le discipline venatorie in cui introdurre in modo sistematico la didattica dei corsi erogati dalla Associazione per dotarli di un riconoscimento ufficiale.
La caccia con l’arco è sistema di prelievo a basso impatto ambientale: mai come le zone limitrofe ai parchi (ed i parchi stessi) possono trarre beneficio da essa, se ben regolamentata e strutturata. Sono in corso azioni specifiche per sondare la possibilità di creare cacciatori abilitati alla caccia di selezione con l’arco, congiuntamente ad un programma che prevede la creazione di operatori specializzati nella gestione degli ungulati (nel caso specifico il cinghiale). La nostra associazione ha preparato un progetto ad ampio respiro che potrà essere operativo a breve.
La cosa che meraviglia di più, alla luce di due convegni organizzati sul territorio, corsi formativi e momenti di incontro, è la straordinaria risposta dei cacciatori tradizionali. Le stesse associazioni venatorie hanno dimostrato una sensibilità particolare nel sostenere questa proposta. La caccia con l’arco potrà forse divenire un “modello” di gestione, o comunque un sistema per collegare le componenti tecniche di gestione ad una domanda sempre più intensa di coinvolgimento tra l’uomo e il territorio attraverso la caccia.

Vittorio Brizzi


Bibliografia utile:

Brizzi – Zani, Il Libro del cacciatore con l’arco, Greentime editori Spa, Bologna 2003
Brizzi, A caccia con l’arco, Planetario edizioni, Bologna 1993
Badsworth, Stinger, - NBEF Educational Papers , 1975
Brooke, Stinger- NBEF Educational Papers, 1981

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